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CHIHIRO YAMANAKA TRIOwww.myspace.com/chihiroyamanaka Luogo: Art Blakey Jazz Club, Busto Arsizio (VA)
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Chihiro Yamanaka - pianoforte Mauro Gargano - contrabbasso Mickey Salgarello - batteria |
Quando si aggirava tra i tavoli dell’Art Blakey Jazz Club alla fine del concerto, vestito nero, teiera stretta timidamente tra le mani e cappello a punta regalatole per la notte delle streghe, Chihiro Yamanaka sembrava, più che una malvagia fattucchiera, una splendida e minuta fatina con un sorriso dolce e riservato. Ma se qualcuno l’avesse vista qualche istante prima, mentre piegava al suo volere gli 88 tasti del pianoforte, avrebbe avuto, quanto meno della sua grandezza, una percezione totalmente differente.
Lo slancio e l’intensità che avrebbero permeato il sound della serata si sono mostrati a tutti i presenti sulle prime note di Take Five: il celeberrimo cinquequarti di Dave Brubeck è per l’occasione rivisitato e modulato, ma mai distorto o forzatamente distaccato dall’originale. La stupefacente padronanza, la determinazione e la tecnica di Chihiro Yamanaka divampano sul palco nel rispetto della tradizione, e conferiscono al brano una nuova forza propulsiva.
Nell’introdurre Antonio’s Joke, composizione della pianista ispiratale dalle vicende di un suo estroverso amico e coinquilino siciliano, la Yamanaka accenna una sorta di captatio benevolentiae rivolta al club che le sta sta ospitando: «Art Blakey è il mio batterista preferito, ho tutti i suoi dischi. Quindi per me è doppiamente un piacere essere qui». Quello che colpisce immediatamente nell’ascolto di Antonio’s Joke è la spiccata propensione melodica della compositrice: il brano è familiare e piacevole fin dal primo ascolto senza sacrificare costruzioni sofisticate e virtuosismi impegnativi.
L’approdo successivo è alla musica classica con Liebesleid (Love’s sorrow) di Fritz Kreisler, ma la marca inconfondibile dell’arrangiamento è quella di Chihiro Yamanaka: il tema viene subito affermato dal pianoforte con un carattere caliente, poi il brano si snoda tra solo di pianoforte e batteria che creano una dinamica accattivante, mentre la pianista vive e partecipa la musica con una fisicità che aumenta ancor più il coinvolgimento della platea.
Il rientro dalla pausa è segnato da un omaggio ad Aldo Romano con Somebody’s Proof, seguito da una rivisitazione di Giant steps di John Coltrane. La successiva Rainbi and Rain, ancora a firma Yamanaka, inizia con lo sgocciolare delle note fluide del contrabbasso di Mauro Gargano, seguite da un pizzicato che ricorda il picchiettio della pioggia sul suolo; come un rombo di tuono il pianoforte poco dopo entra “a piene mani” e si conquista la scena.
Lo swing di Flight Of The Foo Birds (Count Basie) è l’ennesima scelta azzeccata per il divertimento della platea che a questo punto non ha nessuna intenzione di farsi sfuggire l’occasione di ascoltare un altro brano del trio e a gran voce chiede il bis. Ce ne saranno due prima che la pianista giapponese e i suoi due scudieri lascino il palco trra gli applausi di un pubblico affascinato: l'ennesima prova della grande musica che risuona da anni tra le pareti dello sperduto vicolo Carpi di Busto Arsizio.
Qualunque cantautore farebbe carte false per avere nel proprio repertorio un brano come Generale, chiusura perfetta di un concerto, finale d’effetto con pubblico in tripudio. Invece, chi ha effettivamente firmato quel pezzo può permettersi di utilizzarlo, con ritmo più agile e scanzonato, per rompere il ghiaccio: una cordiale stretta di mano ad una nuova platea.
E’ piuttosto singolare che i settant’anni di Paul Simon, che l’ artista americano ha compiuto giovedì 13 ottobre, passino così sotto silenzio. Le pagine dei rotocalchi, nell’ambito di casa nostra, sono gremite di falsi scoop, come l’addio di Ivano Fossati, che se reale addio sarà si potrà dire solo tra dieci anni almeno, e cretinate illeggibili su chi sia più grande tra Lady Gaga e Madonna, paragone idiota sotto ogni punto di vista, o polemiche sulla voce di Jovanotti o sulla povertà delle nuove proposte di Giorgia o la Pausini.
Giusto guardare il proprio orticello (per quanto piccolo esso sia…) però mi sarei aspettato di trovare una maggior eco per questo anniversario, soprattutto per celebrare uno dei pochi musicisti internazionali che ha veramente cambiato, nel corso di cinquant’anni di carriera, il corso della musica. La prima tappa è stata l’esperienza con Art Garfunkel, col quale ha costituito il duo più celebre del pianeta. Nei cinque dischi prodotti dal gruppo (quasi completamente firmati da Paul), che contenevano capolavori assoluti quali Sound of silence, Mrs. Robinson, The boxer o Bridge over troubled water, s’è coniugato il folk al rock in una miscela coinvolgente ed emozionante come solo il coetaneo e connazionale Robert Zimmerman è riuscito a fare.
Esperienza che è blandamente proseguita negli anni settanta, con ritorni di fiamma e stridenti (ri)separazioni, e che ha avuto il suo canto del cigno con il celeberrimo Reunion Tour, che sarebbe culminato nel monumentale Concert in Central Park (19 settembre 1981). Ma Simon aveva nel frattempo consolidato una valentissima carriera da solista. Il punto più alto della stessa, il momento che da il via alla seconda fase artistica del nostro, è datato 1986. Graceland, settimo album, rappresentava un esplosione di suoni modernissimi e trascinanti, registrato non a caso in Sudafrica con il massiccio apporto di musicisti locali. Trascinato dall’impeto di singoli come The boy in the bubble e You can call me Al, Graceland comprendeva una mistura di pop, rock, afro, cappella e altri stili ancora, e raccolse l’unanime consenso mondiale di critica e pubblico. Joe Strummer ne definì il sound “una nuova dimensione”. Rolling Stone piazzò il lavoro al 81esimo posto dei 500 dischi migliori di tutti i tempi, e l’anno successivo fu quest’opera a fruttare al cantautore il Best International Solo Artist award agli Awards britannici.
Era solo l’ apice di una carriera pressoché priva, a livello artistico, di punti deboli (a parte, forse, il mediocre Songs from the Capeman del 1997, l’album nato dal musical, che s’è rivelato l’unico, vero flop della sua discografia. Ma di fronte alla costante qualità del resto della produzione, si può anche chiudere un occhio.. ). Popolarità, onori e riconoscimenti sono proseguiti anche nel nuovo decennio: del 2007 è l’assegnazione del Gershwin Prize for Popular Song, istituito dalla Prestigiosa Library of Congress. Spalleggiato da un ventennio da una partner che è per lui moglie e dichiarata musa ispiratrice (la cantante Edie Brickell, che ebbe un momento di notorietà nel 1990 coi New Bohemians e il disco Shooting rubberbands at the stars, e che oggi ha creato un gruppo con il primo figlio di Paul, Harper),
Simon è tornato recentemente agli onori della cronaca, allorchè s’è esibito, lo scorso 11 settembre nell’ambito del decennale degli attacchi al World Trade Center, in una versione di Sound of silence ad alto tasso emozionale. Nel frattempo l’ultimo disco So beautiful or so what, pubblicato sei mesi or sono scala le classifiche dalle due parti dell’oceano. Il miracolo continua, anche a settant’anni. E Still crazy after all these years è un motto che vale tuttora, una pazzia dalla quale Paul, fortunatamente, non è ancora guarito.
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Louis Hayes & The Cannonball Legacy BandLuogo: Teatro Sociale, Busto Arsizio (VA)
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DADO MORONI, JOE LOCKE, ROSARIO GIULIANISTEPPIN' ON STARSLuogo: Teatro Sociale, Busto Arsizio (VA)
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Apertura atipica per un festival jazz: il trio vibrafono-pianoforte-saxofono potrebbe incuriosire e un po’ spaventare chi non fosse avvezzo alle prodezze di Dado Moroni, Joe Locke e Rosario Giuliani. Ma dal palco, durante la cerimoniosa presentazione, arriva subito un segnale rassicurante: nel mezzo di una sbrodolata di retorica non priva di strafalcioni le poche, lucide parole di Achille Castelli, patron del festival, sono una garanzia e l’unico vero omaggio alla musica: la passione per il jazz, continua ricerca coltivata con discrezione, è ciò che ha reso possibile lo svolgersi di Eventi in Jazz e che tutt’oggi ne decreta il successo.
Calano le luci e la parola è lasciata alla musica. Il vibrafono è protagonista del primo brano in cui il sound del trio viene sviscerato cautamente: Swords Of Whisper è un blando e sognante omaggio di Joe Locke a Little Jimmy Scott, vocalist americano. Il pianoforte sostiene la struttura del brano mentre il vibrafonista si lascia trasportare dai quattro battenti in sapienti improvvisazioni che svelano a tratti reminescenze beatlesiane. Nel corso della serata capiterà ancora che il quartetto di Liverpool ispiri i musicisti sul palco: la composizione Quiet Yesterday di Dado Moroni nasce da un un gioco del pianista sul finale del quasi omonimo pezzo di McCartney.
La serata continua con un altro brano a firma Locke (video) estrapolato dalla sua suite in sei movimenti: è la volta del sax contralto di Rosario Giuliani che irrompe nel brano con una scarica di note sfuggenti. Subito dopo ecco che il sassofonista mette in mostra l’altro lato della personalità del trio (come lo definisce lo steso Locke) con una ballata che sfiora il melenso dal titolo My Angel.
Decisamente più scanzonato e divertente il successivo omaggio a Lennie Tristano, Lennie’s Pennies in cui i tre musicisti si cimentano in altrettanti assoli che stuzzicano la platea fino allo scrosciare finale di applausi (video). Alla già citata Quiet Yesterday segue la title track dell’album, Steppin’ on Stars: è il vibrafonista di origini californiane a catturare l’attenzione del pubblico, grazie al suo sorprendente vistuosismo associato ad una particolare atleticità, che gli permette di ingaggiare una sorta di danza con le note che dalle lamelle si librano nell’aria.
In chiusura il trio sfodera prima Brother Alfred, legata ad un divertente aneddoto sul padre di Dado Moroni, e poi The Peacock, brano dall’incedere cadenzato che ricorda il passo dello sgargiante pennuto.
Il fluire copioso degli applausi a fine concerto, oltre che decretare il successo della prima serata di Eventi in jazz, è sicuramente un segnale di buon auspicio per la continuazione della manifestazione bustocca.
Leggi la recensione di DADO MORONI, JOE LOCKE e ROSARIO GIULIANI live @ Art Blakey Jazz Club
di Lorenzo Manfredini
E’ in una delle prime “serate da cappotto” che Chieti respira l’aria calda del Jazz. Nei palchetti dello splendido teatro “Marrucino”, mezzo pieno (e non mezzo vuoto), si fa strada la voce di Stefano Zenni, presidente della Sidma e organizzatore del progetto Chieti in Jazz. Dalle sue parole si evince una forte soddisfazione quando, presentando i musicisti della Sidma Jazz Orchestra, fa leva sul fatto che la maggior parte di questi siano giovani abruzzesi; testimoni ultimi di un fermento che sotto sotto scuote l’ignoranza e il disinteresse da cui spesso siamo circondati.
A luci spente, è Roberto Spadoni che spiega la particolarità del progetto, di come sul palco saranno due distinte formazioni (Combo e Big Band) a suonare gli arrangiamenti dei ragazzi partecipanti al seminario. Ed è subito musica.
Il piccolo gruppo comincia a far sentire ciò che ha da dire, forse per l’emozione, solo dopo il primo impatto. Ma il tono è pacato, non spento. Non c’è bisogno di scintille per far suonare come si deve l’evanescente There Is No Greater Love, e in Au Private già si cominciano a schioccare le dita. Ma è con la Big Band che le orecchie vengono soddisfatte. L’impatto sonoro con la sezione di fiati accende l’aria in uno spassoso arrangiamento di To Totò. Le percussioni entrano in scena e ritmano i lavori degli “allievi” che con una bella miscela di brani fanno cenni ammiccanti alle loro influenze. In I Mean You fa eco il Jungle Style. L’arpa in September Song si fa spazio dal piccolo centro del palco e rende per un attimo intima l’atmosfera.
Il maestro Spadoni dirige nel clima disteso che ha contribuito a creare e fa gli onori di casa presentando i vari musicisti che si alternano sul palco. E’ magnetico il trio di voci femminili nel quale “le belle” della serata cantano So in Love, ed è a dir poco azzeccato il finale, un trionfante arrangiamento della colonna sonora di Ritorno al Futuro. E’ dunque tra i sinceri e calorosi applausi del pubblico che si conclude quest’edizione del Chieti in Jazz Festival, una realtà vera, di quelle che mancano da noi. La scioltezza con cui sono trascorsi gli otto giorni di programma (nei quali oltre al concerto finale e alle lezioni del seminario si è svolta la Masterclass con Javier Girotto e il suo relativo concerto) è una chiara testimonianza di quanta cura sia stata messa nell’organizzazione.
Ciò che forse è mancato e andrebbe rivisto nelle prossime edizioni, è il dare l’opportunità ai compositori dei pezzi per Combo di dirigere i loro stessi arrangiamenti. “Di lui è stato detto…” che forse era pomposo chiamarlo festival; ma lo spirito della parola stessa e quello dello svolgimento del progetto, lo rendono tale molto più di tante altre realtà ben più blasonate.
Alla fine non è solo la grandezza che rende “grande” qualcosa.
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ERIC SARDINAS & BIG MOTORwww.ericsardinas.com/Luogo: Live Music Club, Trezzo sull'Adda (BG)
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Egocentrico, esuberante, per alcuni eccessivo, Eric Sardinas fa parte di quella categoria di musicisti che una volta venivano definiti “animali da palcoscenico”.
Selvaggio, indemoniato, sudato nei pantaloni a zampa neri e attillati, con il cappello da cowboy calato sugli occhi, gli anelli in bella vista, lo slide al mignolo sinistro e l’inseparabile chitarra resofonica elettrificata a tracolla, Sardinas irrompe sul palco, da solo, passando sotto il telo nero ancora mezzo abbassato, parla al pubblico, si dimena battendo il tempo con i suoi stivali a punta sulle assi rimbombanti e non lesina pose plastiche e assoli funambolici di fronte agli obbiettivi della macchine fotografiche.
Questa, però, non è altro che la cornice. Nell’esibizione di Eric Sardinas e dei Big Motor c’è anche tanta, tantissima sostanza: c’è il blues, quello sporco e genuino del Delta del Mississippi, c’è il rock’n’roll scatenato degli anni ‘50 e ‘60, c’è l’influenza del gospel e dei grandi chitarristi degli anni ‘70, su tutti Jimi Hendrix. Con grandissima abilità tecnica e uno stile chitarristico innovativo, Sardinas trae spunto dalla tradizionale musica nera americana per creare una miscela unica, indefinibile ed esplosiva.
La scaletta proposta questa sera ripercorre, in un’ora e mezza abbondante, il percorso musicale intrapreso più di dieci anni fa dal chitarrista-cantante originario della Florida e spazia dal southern rock di Road To Ruin al rock’n’roll di Full Tilt Mama, tratte dal nuovissimo album Sticks and Stones, dal blues di Down to Whiskey alla strumentale Texola, tratte da Devil’s Train, fino all’attesissima I Can’t Be Satisfied.
La formazione di tre soli componenti è perfetta: mentre Sardinas lascia correre le sue mani lungo il manico della chitarra con una rapidità e naturalezza disarmanti, alle sue spalle il Big Motor composto da Chris Frazier alla batteria e da “big man” Levell Price al basso supporta la veemenza del frontman con ritmiche scarne, precise e possenti.
Prima dei consueti bis c’è spazio per due pezzi acustici, due ciliegine sulla torta che vedono protagonisti, sotto le luci soffuse e nel silenzio generale, il solo Sardinas e la sua chitarra. I suoni ruvidi e la straordinaria intensità emotiva delle interpretazioni di un classico del repertorio delta-blues di Robert Johnson e della sua 8 Goin’ South ci portano, per qualche breve istante, in un luogo e in un tempo lontani e a noi sconosciuti.
Il concerto si conclude con l’inchino dei tre musicisti a raccogliere i meritati applausi. Il pubblico, benché non numerosissimo, risponde con grande calore e credo che tutti, anche i più scettici e i puristi, siano usciti con la convinzione che Eric Sardinas sia, prima che un animale da palcoscenico, un vero bluesman, uno che ha fatto del motto “Respect tradition!” il proprio credo.
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